Prima del grande scisma del 1054 tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli (che si definirà l’ “Ortodossa” per eccellenza), le icone su tavola avevano già avuto, per almeno quatto o cinque secoli, grande diffusione in tutto il mondo cristiano, dalla Siria all’Egitto, dall’Oriente bizantino all’Occidente carolingio.

A partire dalla seconda metà del XIII secolo, in Occidente, in particolare con l’arte medievale italiana di Duccio di Buoninsegna e Giotto (per citare solo i più grandi), si assiste ad un progressivo passaggio dall’arte sacra all’arte religiosa. L’icona, con i suoi moduli, i suoi simboli, il suo linguaggio, la sua luce che promana dai volti e dai corpi trasfigurati, viene sempre più messa da parte, minimizzata, fino ad essere soppiantata da un’arte che predilige la corporeità avvolta in una luce naturale. Si tratta di un’arte sempre più carnale, legata ai sensi, che ferma lo sguardo sulla materia e sui particolari di tipo ritrattistico, espressione dell’inizio di quel decadimento apparentemente inarrestabile che avrebbe portato al primato dell’uomo su Dio, della scienza sulla sapienza, della carne sullo spirito.

A questo decadimento si contrappone l’iconografia sacra. Il compito dell’icona, infatti, non è tanto quello estetico del ricercare la somiglianza esteriore con la natura del soggetto che si rappresenta (ritratto), ma piuttosto ascetico, nel perseguire quella somiglianza interiore (volto) che ci permette di vedere la realtà delle cose, oltre le sole apparenze. L’icona educa allo sviluppo dello “sguardo interiore” che ci abitua a guardare attraverso il sensibile, ciò che sta oltre il sensibile, dando il giusto valore a entrambi: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?” (1Cor  6,19).